domenica 30 settembre 2007

Zitti Zitti

di Stefano Bartezzaghi

Può rinnovarsi la scenografia, cambiare qualche dettaglio, ma all' "eredità"-il game show - di raiuno- qualcosa che non cambia mai : le frasi con cui Carlo Conti accompagna le diverse fasi di gioco. Nel paese d'origine del concorrente "tutti fanno il tifo per te"; i soldi guadagnati fino a lì si chiamano - un pò impropriamente- "montepremi, e quando un concorrente perde il suo "montepremi" a favore del proprio avversario Conti esclama "Colpo di scena!", anche se il caso è comunissimo e ricorrente ( come è inevitabile con domande del genere: "in quale animale la lingua è l'organo dell'olfatto").
Ogni santa volta, inoltre, il conduttore qualificherà i "sessantmila euro" che "zitti zitti se ne vanno nelle casse" dell'avversario.
Quest'ultima formula deve avere per Conti un certissimo valore magico. Il gioco non può andare avanti, non si può dare la linea al Tg "nuova formula"- come i dentifrici- insomma non ci si può addentrare nella notte televisiva senza quegli euro che "passano nelle casse" di qualun altro, e (attenzione!) lo fanno proprio "zitti zitti": senza fiatare.

Articolo di Repubblica del 28/09/07

sabato 29 settembre 2007

Quanto ci costa la chiesa?

Quei venduti e corrotti (secondo Grillo) giornalisti di repubblica, hanno fatto un'inchiesta, una cosa normale; ebbene hanno scoperto che la chiesa costa agli italiani 4 miliardi di euro all'anno! Ovvero quanto tutta la poltica messa inieme, o una mezza finanziaria, un ponte sullo stretto o un Mosè all'anno!

Solo che questi non sono eletti da nessuno! Questo dimostra che non stanno solo nella politica i problemi dell'Italia, anche se un taglio degli stipendi del 50% sarebbe un segnale forte e giusto.

uno stralcio di articolo lo potete trovare qui

"la Chiesa sta diventando per molti l'ostacolo principale alla fede. Non riescono a vedere in essa altro che l'ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini, che con la loro prestesa di amministrare i cristianesimo ufficiale sembrano ostacolare di più il vero spirito del cristianesimo"
Quel teologo che era Joseph Ratzinger

venerdì 28 settembre 2007

non ci sto!

Non ci sto alla finta democrazia. Non ci sto al populismo. Non ci sto all'attacco agli intellettuali. Non ci sto all'ignoranza. Non ci sto a Grillo.
Dovevamo aspettare Grillo per avere un pò di democrazia? No, certo che no.
Il suo blog è tutto tranne che democratico, solo lui fa informazione, non regola i commenti che finiscono in uno sproliloquio di parole inutili che allontanano il problema di fondo. Se ci fate caso lui è unilaterale, non risponde mai ai commenti, questi finiscono per diventare sole parole da bar, che nessuno legge e che in definitiva non interessano a nessuno; alimentano solo la sua immagine populistica.

E' un populista perchè tende ad usare parole semplici come il "vaffanculo" per attirare la folla, perchè alla folla non interessano i discorsi complessi, alla Galimberti, alla Eco, ma interessano gli insulti i vari "nano" che diffonde non sono giustificati da niente e da nessuno.
E' un populista perchè se l'80% degli italiani dicesse che la pena di morte è giusta, lui direbbe che questa è una scelta democratica!
Il populismo è questo, incarnare le frustrazioni di un popolo e cerca in tutti i modi di farle proprie, è credere che un popolo sia un tutt'uno, un unica entità.
Yves Mèni ha pubblicato diversi studi sul populismo, una frase che mi ha colpito è questa: "Il populismo emargina una cosa fondamentale per la democrazia ovvero la limitazione del potere e la difesa dello stato di diritto".

Grillo cavalca l'onda dell'ignoranza di questa italia sgangherata del 2007.
Fa bene Sgarbi a dire che Grillo non sapeva nemmeno che statua aveva alle spalle a Bologna perchè è il primo degli ignoranti.
Fa presto lui a dire che i giornalisti sono tutti dei venduti: Scalfari, Mieli, Berselli, Pansa, Serra, Mauro, Merlo e tutti quelli meno conosciuti che fanno inchieste, scoprono che certi ospedali sono fatiscenti, scoprono le mafie, i corrotti e guadagno 1000€ al mese e lui invece 50000 a sera. Chi è più corrotto?
Mette insieme i grandi politici, i sindaci che combattono ogni giorno la mafia, i politici che hanno preso una multa in un sincretismo che fa di un errore umano una condanna universale. Allora di Gramsci cosa dobbiamo dire? Anche lui era stato messo dentro per le sue idee no?

A volte come dice Galimberti, si dovrebbe cercare un pò di silenzio, per non ascoltare discorsi che si potrebbero benissimo dire noi stessi o fare monologhi che si potrebbero ascoltare da qualisiasi altra persona. In questo dialogo sempre uguale che televisione e comici ci propongono, il silenzio potrebbe essere un'opzione per trovare noi stessi.

mercoledì 26 settembre 2007

San Pietroburgo, Montaldo torna con Dostojevskij.

Giuliano Montaldo, uno dei re del cinema italiano torna con una grande storia. La biografia di Fëdor Mikhajlovic Dostojevskij, “San Pietroburgo”.
"Il film racconta- dice Montaldo - lo stato d'animo di un uomo, Dostojevskij, con un passato da giovane rivoluzionario e a un passo dal plotone di esecuzione che si trova ora coinvolto con un gruppo di terroristi, forse uno dei primi nella storia. Ma come il film vuole dimostrare, con le bombe non si va avanti e lo scrittore si troverà a dover sventare le nuove azioni di questo gruppo che aveva nei suoi piani lo sterminio di tutti e trenta i componenti della famiglia dello zar"

In questi giorni si sta parlando molto di pena di morte, Dostojevskij era fermamente contrario come scrive in Delitto e castigo. Ma Dostojevskij è quello dei fratelli Karamazov , uno dei massimi capolavori mondiali.

Questo film, è la storia di un uomo, della Russia, degli zar. Le musiche saranno di Ennio Morricone. L'uscita era prevista per questo mese, ma non ne sento ancora parlare.
Penso sia tornato il cinema italiano.


link : San Pietroburgo

giovedì 20 settembre 2007

Quei terroristi di casa nostra

La decisione del sindaco Cofferati di non concedere (per adesso) l'area per la costruzione della moschea a Bologna fa certamente discutere.
Forse questo non era il momento, ma certamente era una possibilità di aprire le strade al dialogo.
Se chiedete ad un bolognese se trova giusto costruire la prima moschea nella sua città, questa risponderà di no. Ovviamente non sa che la moschea a Bologna c'è già e funziona benissimo anche se è in un luogo scomodo sia per i cittadini musulmani che per gli altri.
Quindi le persone non sono informate sui fatti, dicono che non sono stati consultati, ma non sono nemmeno consultati quando costruiscono chiese cattoliche o di qualsiasi altra religione. Non si capisce di cosa si stia parlando.
Sicuramente la situazione è cambiata dopo l'11 settembre, ma è innegabile che per combattere il terrorismo, le mele marce islamiche, bisogna esser più aperti possibile con tutti gli altri; la costruzione di una moschea trasparente verso la società, aperta ai controlli, è sicuramente migliore dei bunker dove si rifugiano i veri terroristi. L'Islam è una religione che ha più di un miliardo di seguaci in tutto il mondo, considerarli tutti terroristi è folle.
La tesi che si propone più spesso, anche quella folle della Fallaci, è letteralmente che " noi non possiamo neanche andare là con la croce e ci fanno fuori!", ma la differenza rispetto a loro è che noi siamo una civiltà avanzata, non superiore certo, ma abbiamo una cultura della democrazia e della tolleranza.
I terroristi purtroppo li abbiamo anche a casa nostra, come ad esempio quelli che hanno lanciato una molotov alla moschea di Segrate.
Naturalmente ci deve essere un rispetto della legalità e della giustizia da parte di tutti, e certe frasi dette da alcuni musulmani possono far discutere e accendere un pò di rabbia, ma non è moralistico cercare di instaurare il dialogo. Quelli che dicono il contrario evidentemente non conoscono la storia.

sabato 15 settembre 2007

la forza della Sragione

Basta con Oriana Fallaci!
Da molti infatti è ritenuta la sorella di Calderoli e di Bush.
E' stata una terrorista internazionale (come dichiarato anche da Franca Rame). Sugli immagrati clandestini che arrivano con i barconi era dell'opinione che bisognasse tirarli a mare.

Ha dimostrato la sua pochezza umana con tante dichiarazioni, una tra le quali rispetto ad una moschea che doveva esser costruita in Val D'Elsa :

«Se sarò ancora viva andrò dai miei amici di Carrara, la città dei marmi. Lì sono tutti anarchici; con loro prendo gli esplosivi e lo faccio saltare per aria. Non voglio vedere un minareto di 24 metri nel paesaggio di Giotto, quando io nei loro paesi non posso neppure indossare una croce o portare una Bibbia. Quindi, lo faccio saltare per aria!»

venerdì 14 settembre 2007

propongo il terrone-day

Per rispondere al Maiale-day di Calderoli, propongo che tutti i terroni d'Italia marcino sulla padania, in modo da infettarla e liberarci dalla stupidità leghista.

mercoledì 12 settembre 2007

Raccontare una storia per salvare gli uomini , David Grossman

Non potevo non pubblicare questo articolo (pubblicato su "la repubblica" il 5 settembre scorso) di David Grossman, uno dei miei autori preferiti (e non solo certo il mio), oltre che uno dei più grandi scrittori israeliani insieme ad Amos Oz. L'autore di "vedi alla voce: amore", inaugura quest'anno il festival della letteratura di Berlino, lo fa con questo articolo spendido che mi ha colpito enormemente, non so se in un articolo successivo sarò in grado di commentarlo, come ha fatto per esempio Eugenio Scalfari per la grande complessità dei temi trattati. Da leggere.

Essere uno scrittore israeliano che apre il festival della letteratura di Berlino è per me un grande onore. Questa frase sarebbe stata impensabile e impronunciabile fino a pochi anni fa e ancora oggi non posso essere indifferente riguardo al suo significato. Nonostante tra Germania e Israele – e tra israeliani, ebrei e tedeschi – si mantengano relazioni strette, una frase come questa non è né neutra né ovvia. C´è un posto nella coscienza, nel cuore, in cui certe frasi devono passare attraverso le lame affilate del tempo e della memoria, come un raggio di luce, per scomporsi in una miriade di suoni e di colori. E qui, a Berlino, non posso che cominciare il mio discorso con queste parole, che si scompongono dentro di me attraverso le lame affilate del tempo e della memoria. Sono nato e cresciuto a Gerusalemme, in un quartiere, in una famiglia, dove la gente non era nemmeno in grado di pronunciare la parola «Germania». Faticava persino a dire «Shoah». Parlava di «ciò che è successo laggiù». È interessante notare che in ebraico, in yiddish, o in qualsiasi altra lingua parlata da ebrei, la Shoah è per lo più «qualcosa che è successo laggiù», diversamente da «ciò che è accaduto allora» per i non ebrei. C´è una differenza abissale tra laggiù e allora. Allora è un avverbio di tempo che indica un passato che non esiste più. Laggiù è un avverbio di luogo e allude al fatto che da qualche parte, in un qualche posto, ciò che è successo ancora cova sotto le ceneri, si rafforza, e potrebbe tornare a esplodere. Non è una cosa finita. Di certo non per noi ebrei. Da bambino sentivo molto spesso parlare della «belva nazista» ma quando domandavo agli adulti chi fosse, loro si rifiutavano di spiegarmelo.Dicevano che ci sono cose che un bambino non deve sapere. Più tardi scrissi in Vedi alla voce: amore di Momik, figlio di sopravvissuti all´Olocausto al quale i genitori non rivelano ciò che è avvenuto laggiù. Momik, pieno di paura, immagina la belva nazista come un mostro che domina un paese chiamato laggiù, maltratta le persone a cui vuole bene, fa cose che lasciano ferite indelebili e nega loro la possibilità di avere una vita normale, serena. (...) La mia generazione, quella dei nati nei primi anni Cinquanta in Israele, viveva in un silenzio carico di presenze, densamente affollato. Nel quartiere in cui abitavo c´era gente che ogni notte aveva incubi, urlava. Più di una volta, quando entravamo in una stanza in cui degli adulti raccontavano episodi della guerra, la conversazione si interrompeva. Ma di tanto in tanto riuscivamo a captare frammenti di frasi: «L´ultima volta l´ho visto in Himmlerstrasse, a Treblinka»; «Ha perso i due figli durante la prima retata». (...) Quando avevo sette anni si è tenuto a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann e allora abbiamo cominciato ad ascoltare le descrizioni delle atrocità anche durante la cena. La mia generazione ha perso l´appetito, e non solo per il cibo. Lo ha perso per qualcosa di più profondo che noi bambini, allora, naturalmente non capivamo e che ci si è chiarito in seguito. Forse era la perdita dell´illusione che i nostri genitori potessero proteggerci da ciò che ci faceva paura, o della convinzione che noi ebrei potessimo un giorno vivere sicuri e sereni come gli altri popoli. Ma forse, più di tutto, percepivamo la perdita della nostra naturale fiducia di bambini negli altri, nella bontà del prossimo, nella sua compassione. All´incirca vent´anni fa, quando mio figlio maggiore aveva tre anni, nella scuola materna che lui frequentava fu celebrata, come tutti gli anni, la giornata della memoria per le vittime della Shoah. Lui non capì molto di quello che gli venne spiegato. Tornò a casa confuso e spaventato. «Papà, cosa sono i nazisti? Cos´hanno fatto e perché?». Io non volevo dirglielo. Io, che ero cresciuto in un silenzio che mi aveva provocato ansie e incubi, che avevo scritto un libro su un bambino che era quasi impazzito a causa del silenzio dei genitori, capii all´improvviso perché i miei e quelli dei miei amici avevano taciuto. Sentivo che se avessi raccontato a mio figlio ciò che era avvenuto laggiù, se glielo avessi accennato, pur con enorme delicatezza, qualcosa della sua purezza di bambino di tre anni sarebbe stato contaminato. Sentivo che nel momento in cui quelle possibilità crudeli si fossero formulate nella sua coscienza innocente, lui non sarebbe mai più stato lo stesso bambino. E non sarebbe più stato un bambino. Dopo che fu pubblicato Vedi alla voce: amore in Israele alcuni critici scrissero che appartenevo alla «seconda generazione della Shoah», che ero figlio di «sopravvissuti all´Olocausto». Non lo sono. Mio padre arrivò nella terra di Israele dalla Polonia nel 1936. Mia madre è nata in Palestina, prima della fondazione dello Stato. Eppure sono figlio di «sopravvissuti alla Shoah» perché anche a casa mia, come in tante altre case israeliane, era teso un filo carico di angoscia che potevamo toccare in qualsiasi momento. E anche se stavamo molto attenti e non facevamo movimenti bruschi, avvertivamo un costante fremito di insicurezza nella possibilità di esistere, di sospetto nei confronti degli altri e di cosa questi altri potessero farti quando meno te lo aspettavi. (...) Chi come me è nato nell´Israele del dopo Shoah si porta dentro la sensazione - di cui ci era proibito parlare allora e che forse non eravamo nemmeno in grado di esprimere a parole - che noi ebrei intratteniamo un dialogo diretto con la morte. Che la vita, anche quando è piena di energie e di speranze e della fertilità di una nazione giovane, in rinnovamento, è più che altro uno sforzo enorme, costante, di sfuggire alla minaccia della morte. Nell´Israele degli anni Cinquanta e Sessanta, non solo in momenti di disperazione ma anche in quelli in cui l´esaltazione per la «creazione di una nazione» si affievoliva soltanto di poco, in cui ci sentivamo un po´ stanchi della nostra formidabile rinascita, in quegli attimi di malinconia, privata e nazionale, potevamo percepire la morsa di gelo che ci stringeva il cuore e ci sussurrava con voce sommessa ma perentoria: la vita svanisce così in fretta, tutto è talmente fragile. Il corpo, la famiglia. La morte è reale, tutto il resto è un´illusione. Nel momento in cui ho capito che sarei diventato uno scrittore, ho capito anche che avrei scritto della Shoah. Penso che queste due consapevolezze siano nate in me simultaneamente. Forse anche perché fin da giovane ho avuto la sensazione che tutti i libri che avevo letto sulla Shoah non rispondessero a domande semplici, vitali, che dovevo pormi e alle quali dovevo rispondere da solo. E più il tempo passava più sentivo crescere in me la sensazione che non sarei stato in grado di comprendere la mia esistenza in Israele come uomo, padre, scrittore, israeliano, ebreo, fintanto che non avessi scritto della vita che non avevo vissuto laggiù, durante la Shoah, e cosa mi sarebbe successo se fossi stato una vittima, o uno degli assassini. Perché volevo sapere entrambe le cose. Non mi accontentavo di una.(...) Volevo sapere cosa avrei fatto per contrastare questo tentativo di annientamento. Quale scintilla di umanità mi sarebbe rimasta dentro in una realtà il cui unico obiettivo era spegnerla. A una domanda come questa ognuno deve rispondere da sé. Ma forse posso dare un suggerimento. Nella tradizione ebraica c´è una leggenda, o una credenza, secondo la quale in ogni uomo esiste un ossicino chiamato «luz» - «nocciolo» in ebraico - sistemato in cima alla colonna vertebrale. Questo ossicino racchiude l´essenza dell´anima ed è indistruttibile. Anche se l´intero corpo dovesse disintegrarsi o bruciare, il nostro «nocciolo» rimarrà intatto, preserverà la peculiarità che c´è in ciascuno di noi, la radice del nostro essere. Ed è a partire da questo ossicino che l´uomo si ricreerà nel giorno della resurrezione dei morti.(...) * ** La seconda domanda che mi sono posto mentre scrivevo Vedi alla voce: amore è correlata alla prima e in un certo senso scaturisce da essa. Mi sono chiesto come una persona normale - come lo erano molti nazisti e loro sostenitori - possa entrare a far parte di un meccanismo di distruzione di massa. In altre parole cosa devo reprimere, offuscare, rimuovere, uccidere di me per poter collaborare a un genocidio programmato, per essere in grado di uccidere un altro essere umano, per volere lo sterminio di un popolo intero, o accettarlo in silenzio. Forse però dovrei affinare la domanda: in questo momento sto forse collaborando - coscientemente o inconsapevolmente, attivamente o passivamente - a un processo il cui scopo è danneggiare un altro uomo o un gruppo di persone? «La morte di un uomo è una tragedia», ha detto Stalin, «ma quella di milioni è statistica». Parliamo per un attimo di come una tragedia si trasforma in statistica. Non dico, naturalmente, che siamo tutti degli assassini. È ovvio che no. Eppure la maggior parte di noi sembra quasi indifferente alla sofferenza di popoli interi, vicini e lontani, o a quella di centinaia di milioni di esseri umani poveri, affamati, ammalati, sia nelle nostre nazioni che in altre parti del mondo. Impariamo a non curarci del dolore di estranei che lavorano per noi, del patimento di popoli che vivono sotto occupazione - nostra o di altri -, o in un regime dittatoriale o in condizioni di schiavitù. Con stupefacente facilità creiamo meccanismi che hanno il compito di farci prendere le distanze dalla sofferenza altrui. Riusciamo, nella nostra coscienza e a livello emotivo, a ignorare il nesso causale che esiste fra la prosperità economica delle nazioni occidentali e la povertà altrui; tra il nostro benessere e le vergognose condizioni di lavoro di altra gente; tra la qualità della nostra vita, i nostri condizionatori d´aria e le nostre automobili, e le sciagure ecologiche che si abbattono su altri. Questi «altri» vivono in condizioni talmente terribili che per lo più non hanno nemmeno la possibilità di porre domande come quelle che pongo io ora. Non è solo il genocidio ad annientare il «nocciolo» di un essere umano. Anche la fame, la povertà, le malattie, l´esilio spengono e uccidono gradualmente l´anima del singolo, e talvolta di un popolo intero. Noi non vogliamo assumerci nessuna responsabilità personale per le cose terribili che avvengono a poca distanza da noi. Né mediante azioni dirette né limitandoci a esprimere solidarietà. Ci fa comodo - quando si parla di responsabilità personale - far parte di una massa indistinta, priva di volto, di identità, e all´apparenza libera da oneri e colpe. E probabilmente è questa la grande domanda che l´uomo moderno deve porsi: in quale situazione, in quale momento, io divento «massa»? Ci sono definizioni diverse per il processo con il quale un individuo si confonde nella massa o accetta di consegnarle parti di sé. E siccome noi siamo uomini di letteratura, ne sceglierò una conforme ai nostri interessi. Ho l´impressione che ci trasformiamo in «massa» nel momento in cui rinunciamo a pensare, a elaborare le cose secondo un nostro lessico, e accettiamo automaticamente e senza critiche espressioni terminologiche e un linguaggio dettatoci da altri. Io mi trasformo in «massa» quando cesso di formulare con le mie parole compromessi e scelte morali che sono disposto a compiere.(...) *** Ricorro alla figura dello scrittore ebreo polacco Bruno Shultz per illustrare l´incontro tra un singolo che possedeva un linguaggio estremamente peculiare e un «linguaggio di massa» - l´incontro tra la tragedia e la statistica. Mi riferisco alla vicenda del suo assassinio durante la seconda guerra mondiale, nel ghetto della sua città, Drohobycz. La storia è nota, e forse non è neppure vera, è una leggenda, un aneddoto sul quale negli anni si è costruito «il mito di Shulz» fra i suoi estimatori in tutto il mondo. Ma anche se fosse un aneddoto, tocca un punto profondo, vero. «Gli aneddoti sono sostanzialmente fedeli alla verità» scrive Ernesto Sabato, «proprio perché sono finzioni, inventati in dettaglio per adeguarsi con grande precisione a una certa persona». E infatti, anche se questa particolare storia sulla morte di Shulz non è vera, ciò che essa esprime è sostanzialmente fedele alla verità ironica e tragica di quest´uomo, all´orrore del possibile incontro tra il «singolo» e la «massa», e quindi la racconterò così come l´ho sentita la prima volta. Nel ghetto di Drohobycz, durante la guerra, un ufficiale delle Ss aveva costretto Shulz a dipingere un affresco a casa sua. Un avversario di quell´ufficiale, che aveva litigato con lui a causa di un debito di gioco, incontrò per caso Shulz per strada, estrasse la rivoltella e gli sparò, per vendicarsi dell´uomo per il quale lui stava lavorando. Stando alle voci l´assassino si recò poi dal suo rivale e gli disse: «Ho ucciso il tuo ebreo». E quello rispose: «Benissimo, e ora io ucciderò il tuo». Venni a conoscenza di questa storia subito dopo aver finito di leggere per la prima volta il libro di Bruno Shulz. Ricordo che chiusi il volume e uscii di casa. Girai per ore come immerso in una nebbia. Ero in uno stato in cui, per dirla con semplicità, non volevo più vivere. Non volevo continuare a esistere in un mondo in cui potevano accadere cose come questa, in cui ci sono persone come quegli ufficiali nazisti che pensavano cose come queste. In cui esiste un linguaggio che permette a mostri simili di pronunciare frasi quali «Ho ucciso il tuo ebreo» e «Benissimo, ora io ucciderò il tuo». Scrissi Vedi alla voce: amore per restituire a me stesso, fra le altre cose, la voglia di vivere, l´amore per la vita. E forse anche per guarire dall´offesa che provavo - a nome di Bruno Shulz - per il modo in cui il suo assassinio era stato descritto e «spiegato». Una spiegazione disumana, «di massa». Come se gli esseri umani fossero pedine di scambio, o rotelle di un meccanismo, o accessori che si possono sostituire con altri, o soltanto parte di una statistica. Negli scritti di Bruno Shulz ogni frammento di realtà ha una propria personalità. Ogni nube passeggera, ogni mobile, ogni manichino di sarto, ogni ciotola di frutta, ogni cagnolino, ogni raggio di sole, ogni oggetto, anche il più banale, possiede una propria individualità, una propria essenza, un proprio carattere. E in ogni sua pagina, in ogni suo brano, esplode la vita, ricca di contenuto e di significato. Una vita che all´improvviso merita questo nome. Un´opera enorme che avviene simultaneamente in tutti i substrati del conscio e dell´inconscio, dell´illusione, del sogno, dell´incubo, dei sensi, dei sentimenti, di un linguaggio ricco di sfumature. Ogni riga è una ribellione contro ciò che Shulz definisce «il muro fortificato che grava sul significato»; è una protesta contro la desolazione, la banalità, la routine, la stupidità, gli stereotipi, la tirannia del semplicismo, della massa. (...) Quando terminai di leggere il libro di Shulz capii che lui mi dava, con la sua scrittura, una chiave perché io potessi scrivere della Shoah. Non di morte e di sterminio ma della vita, di ciò che i nazisti avevano distrutto meccanicamente, in maniera industrializzata, di massa. Ricordo anche che, con l´arroganza del giovane scrittore, dissi a me stesso che volevo scrivere un libro che tremasse sullo scaffale. Che fosse vitale come un battito di ciglia nella vita di un uomo. Non una «vita» tra virgolette che trascorre fiacca, ma una come quella che Shulz ci insegna. Una vita vera, al quadrato, nella quale non dobbiamo accontentarci di non ammazzare il prossimo ma dobbiamo fare in modo che esso viva, così come il momento appena trascorso, le visioni viste, le parole pronunciate migliaia di volte, e te, e me. * * * La realtà in cui viviamo oggi non è forse crudele come quella creata dai nazisti ma certi suoi meccanismi hanno leggi di fondo molto simili che offuscano l´individualità dell´uomo e lo portano a rifiutare obblighi e responsabilità verso il destino degli altri. E una realtà sempre più dominata dall´aggressività, dall´estraneità, dall´incitamento all´odio e alla paura; dove il fanatismo e il fondamentalismo sembrano farsi più forti ogni giorno mentre altre forze perdono la speranza di un cambiamento. I valori e gli orizzonti del nostro mondo, l´atmosfera che vi si respira e il linguaggio che lo domina sono dettati in gran parte da ciò che noi chiamiamo mass media, un´espressione coniata negli anni Trenta del secolo scorso quando i sociologi cominciarono a parlare di «società di massa». Ma siamo davvero consapevoli del significato di questa espressione? Di quale processo i mass media abbiano subìto? Ci rendiamo conto che gran parte di essi non solo convogliano un tipo di comunicazione destinata alle masse ma trasformano i loro utenti in massa? E lo fanno con prepotenza e cinismo, utilizzando un linguaggio povero e volgare, trattando problemi politici e morali complessi con semplicismo e falsa virtù, creando intorno a noi un´atmosfera di prostituzione spirituale ed emotiva che ci irretisce, rendendo kitsch tutto ciò che toccano: le guerre, la morte, l´amore, l´intimità. A un primo sguardo sembra che questo tipo di comunicazione si incentri sul singolo, sull´individuo, non sulle masse. Ma è una suggestione pericolosa. I mezzi di comunicazioni di massa pongono il singolo in primo piano, lo consacrano persino, incanalandolo sempre più verso se stesso. Anzi, in fin dei conti, esclusivamente verso se stesso: verso i suoi bisogni, i suoi interessi, le sue aspirazioni, le sue passioni. In mille modi, palesi o nascosti, liberano l´individuo da ciò di cui lui è in ogni caso ansioso di liberarsi: la responsabilità verso gli altri per le conseguenze delle sue azioni. E nel momento in cui lo fanno ottenebrano la sua coscienza politica, sociale e morale, lo trasformano in un materiale docile alle manipolazioni da parte di chi controlla i mezzi di comunicazione e di altri. In altre parole lo trasformano in massa. (...) È questo il messaggio dei mass media: un ricambio rapido, tanto che talvolta sembra che non siano le informazioni a essere significative e importanti ma il ritmo con cui si susseguono, la cadenza nevrotica, avida, commerciale, seduttrice che creano. Secondo lo spirito del tempo il messaggio è lo zapping. * * * La letteratura non ha rappresentanti influenti nei centri di potere globali che ho appena descritto, e fatico a credere che sia in suo potere apportarvi qualche cambiamento. Può però proporre un diverso modo di vivere: secondo un ritmo interno, una coerenza personale più adatta ai nostri bisogni spirituali e naturali di quanto ci venga prepotentemente imposto da apparati esterni. Io so che quando leggo un buon libro qualcosa dentro di me si chiarisce. La mia percezione di essere una creatura particolare si fa più netta. La voce precisa, distinta, che mi giunge dall´esterno risveglia in me altre voci, alcune delle quali erano mute in precedenza. E anche se migliaia di altre persone leggono lo stesso libro nel momento in cui lo sto leggendo io, ognuna lo vive in modo diverso. Per ognuno quel libro è una cartina tornasole di tipo particolare. Un buon libro - e non ce ne sono molti perché la letteratura, naturalmente, è sensibile alle lusinghe e ai trabocchetti della comunicazione di massa - fa sì che il lettore si distingua dalla massa. (...) * * * Quando finii di scrivere Vedi alla voce: amore capii di averlo scritto per dire che chi annienta un uomo, qualunque uomo, a conti fatti distrugge un´opera geniale, unica nel suo genere, specifica e infinita che non si potrà mai più ricreare, né mai ve ne sarà una simile. Negli ultimi quattro anni ho scritto un romanzo che intende dire la stessa cosa, ambientato però altrove, in una realtà diversa. La protagonista è una donna israeliana di circa 50 anni, madre di un soldato che parte per la guerra. La sua preoccupazione per il figlio la porta a presagire la tragedia in agguato, e lei cerca con tutte le sue forze di scongiurarla lottando contro il destino che attende il ragazzo. Compie una lunga marcia, percorrendo quasi la metà di Israele e raccontando senza posa del figlio. È così infatti che cerca di proteggerlo, facendo l´unica cosa che è in suo potere per rendere l´esistenza del figlio più viva e concreta: raccontare la storia della sua vita. E un giorno, sul piccolo quaderno che porta con sé, scrive: «Migliaia di attimi e di ore e di giorni, milioni di azioni, un´infinità di gesti, di tentativi, di errori, di parole e di pensieri. Tutto per creare un unico essere umano». E poi aggiunge: «Un essere umano che è così facile distruggere»

Le iene . Massimo D'Alema contro Tremonti





Non male come video, alcune domande forse si potevano evitare, c'è il rischio di sfociare nella cronaca rosa. Comunque carina l'allusione di D'Alema "perchè lui non ha un partito". Fate voi, commentate.

martedì 11 settembre 2007

Quei morti ammazzati

Forse l'America non si rende conto. Non riesco a farmi una ragione su questo.
Perchè l'america della guerra è quella delle foto, della patria, delle interviste e dei giornali, delle gesta dei soldati, dei colori di una bandiera. Non quella dei morti. Sono quasi 4000 i soldati americani morti nella guerra in Iraq, numero che supera di gran lunga quello altrettanto tragico delle torri gemelle e che va sempre aumentando.
Nel giorno della campana, del minuto di silenzio, della lettura dei nomi, il generale Petreus dichiara la posticipazione del ritiro delle truppe, si continua a sparare e ad uccidere civili. Per chi non l'abbia ancora fatto e forse non si rende conto dello schifo di cui sto parlando consiglio di guardare questo video , sono solo alcune immagini riprese da un soldato americano. Dove sono le commemorazioni per quei soldati? Perchè badate bene non sono eroi, come non erano eroi i morti del 2001, ma hanno in comune con questi l'esser morti per una mano ed una causa folle.
C'è un certa caratteristica italiota che tende a raggruppare un insieme di cose, fatti e persone, quel fare sincretismo dei concetti o per meglio dire "fare di tutt'erba un fascio". La mafia è un esempio lampante. Dire che tutti i politici sono dei mafiosi, vuol dire considerare quelli che hanno lavorato attivamente contro la mafia dei "non politici". Ci sono anche dei magistrati mafiosi, dei giudici mafiosi. In questo periodo va di moda, in un qualunquismo che a volte si confonde con la demagogia di un Grillo Condannato nel 1980 in via definitiva. Questo si chiederanno i lettori, cosa c'entra con la guerra in Iraq, con gli 80000 morti ammazzati in Iraq? Si deve avere fiducia nella politica, nelle istituzioni perchè, come dice Bertinotti, la politica deve fare lo scacco alla guerra. Avevano ragione i grandi movimenti per la pace.
La politica come creatrice di pace.

mitici Rossi e Bonomi



il finale è da vedere, una magia di tecnica. Meglio di qualsiasi F1.

giovedì 6 settembre 2007

mercoledì 5 settembre 2007

Un amore di Swann - Marcel Proust

Sembra guardare un quadro di Renoir, Monet o di Helleu, quando si legge questo strordinario affresco delle francia di fine '800 di Proust, quella borghesia che vole essere così intellettuale, sopra ogni altra famiglia o discendenza, che si rifugia tra pittori, musicisti e medici.
Il romanzo ha dentro di se un qualcosa che può permetttere a chi lo legge di usare l'aggettivo mostruoso. E' in realtà solamente una storia, un "romanzo nel romanzo" compiuto all'interno de "alla ricerca dl tempo perduto" che introduce la figura di Swann, giovane e brillante borghese, conosciutore profondo della pittura, delle arti e della musica, che va a frequentare un piccolo salotto quello dei Verdurin che sono certamente ben al di sotto del suo livello. Qui incontra Odette De Crecy, con cui instaura un profondo rapporto. Ma quello che strabilia in Proust, non è tanto la storia, il racconto di un'epoca, ma la profonda analisi che lui fa dell'amore, della gelosia , dell'uomo. Non vuole essere un romanzo psicologico alla Freud, statico e freddo quindi, ma è una strittura fondamentalmente anarchica, ipotattica e che cattura tanto che vorresti che non finisse mai. Sicuramente il miglior libro che abbia letto sino ad ora.
Il suo capolavoro resta "alla ricerca del tempo perduto", di cui spero presto di entrar in possesso anche se è una spesa, ne vale la pena.

martedì 4 settembre 2007

la sporcizia sotto il tappeto, le nuove strade dell'ignoranza

Un pò per la voglia di riaccendere la credibilità della politica e del suo operato, Domenici ha pensato bene di sfruttare i lavavetri.
"Mezzo chilo 'e spaghett' e un fazzolett' al collo,

lo stilett' e calzoni 'e fustagno,
metti l'aglio che inghiott' a boccate bestiali
e un talent' a lustrare stivali"
dal "Life" del 1911, poesiola sotto la vignetta che descriveva, nella quale c'era un lustrascarpe, l' "Homo Italicus", all'opera su un medio cittadino americano un pò annoiato. Eravamo strani noi italiani anarchici e insurrezionalisti, instancabili lavolatori di un professionismo muscolare, lustrascarpe, camorristi, suonatori d'organo, poeti, incantatori e innocenti. Propio come Sacco e Vanzetti, condannati da una giustizia che cercava il terrore, con un processo sbrigativo e con la sentenza già scritta. Non fu nemmeno utile il carcerato che confessò l'omicidio di cui erano accusati. Furono uccisi come cani, dalla xenofobia e dall'ignoranza.Il giudice Webster Thayer disse dopo lo loro esecuzione "visto come ho sistemato quei bastardi?".
Il latrato dei leghisti, "ci rubano il lavoro" è lo stesso di Aigues- Mortes, quella frase la dicevano i francesi quando ci fù l'eccidio di 30 italiani nell'agosto del 1893, per una lite scoppiata da parte francese perchè gli italiani propio non li sopportavano, facevano il lavoro meglio di loro, erano più forti, più resistenti. Inseguiti, massacrati fino ad esser ridotti alla poltiglia.

"Furono trenta gli uccisi frtelli!
fur sessanta i fratelli feriti
lacerati da ferri e randelli!
cento e cento la fuga salvo!
Non sul campo di patria battaglia
lasciar vinti la giovane vita!
Una gallica fiera gentaglia
sul lavor gli operai trucidò"

Ci sarebbero pagine e pagine da raccontare, come la frase di Nixon, un cialtrone, "il guaio è che non si riesce a trovarne uno che sia onesto", poi le deportazioni, i rimpatrii senza motivo, le stragi e le violenze in Australia per quel colore "oliva", quell'odore nauseabondo di merda che emanavamo. Se l'era scordata l'america Enrico Fermi o dello scienziato Rocco Petrone protagonista dello sbarco sulla luna. Tutto questo e molto altro viene raccolto in un gran libro di Gian Antonio Stella, "L'orda, quando gli albanesi eravamo noi" scritto dal giornalista del corriere nel 2002. Lo recensirò tra poco, ma consiglio a tutti di leggerlo prima di esprimere opionioni un pò affrettate, non dico sbagliate, ma che comunque andrebbero approfondite.
Quella dei lavavetri per me è una decisione ingiusta, presa per tentare di aggirare il problema, nascondere l'evidenza con una multa o un arresto.
L'arresto, la multa non riuscirà a portare giustizia sociale, ad aiutar quei disgraziati. L'Italia è stato un grande paese proprio perchè si tenta di fare giustizia, redistribuzione. Cosa andranno a fare quelli che sono usciti dai semafori?
Una vera lotta si fa agli sfruttatori, alle mafie non ai lavavetri.